Tre sono le costanti nella vita di un vegano: la pasta con il pomodoro nei ristoranti, la sempreverde domanda “e le proteine dove le prendi?” e l’intramontabile divieto assoluto, pena centinaia di messaggi di orrore e rimproveri, nel chiamare un piatto plant-based con il suo nome “onnivoro”.

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Il mondo dell’alimentazione vegetale, legato alla cultura vegana, vegetariana o anche semplicemente flexitariana, sta guadagnando sempre più popolarità e attenzione, portando alla creazione di prodotti e piatti vegetali sempre più creativi e appetitosi. Tuttavia, molte persone si chiedono perché i vegani utilizzino spesso termini onnivori per descrivere i loro piatti.

Ad esempio, come mai un formaggio vegano viene chiamato “formaggio”, se non contiene alcun prodotto lattiero-caseario? O perché si usa il termine “salsiccia” per descrivere un prodotto a base di proteine vegetali?

In questo articolo, esploreremo le ragioni per cui i vegani utilizzano termini onnivori per descrivere i loro piatti e cercheremo di dare una panoramica completa sulle motivazioni dietro questa scelta linguistica. Sorvolando ampiamente sul fatto che il “latte di suocera” non viene effettivamente munto direttamente dalla madre del proprio coniuge, o che il salame di cioccolato non impasta insieme al cacao e i biscotti anche del salame o della salsiccia…

Se voglio quel prodotto, in chiave vegetale…

Il primo punto è LA RICONDUCIBILITÀ: se vogliamo una ricetta di un tiramisù in versione vegetale, non possiamo cercare “dessert al cucchiaio a base di biscotti inzuppati nel caffè e ricoperti di crema”, che Google è già lì che ha i crampi allo stomaco dal ridere. Immaginate anche solo un affettato al supermarket: meglio “affettato vegano gusto affumicato leggermente salato che richiama vagamente quel tipo di prodotto del Sudtirolo che…” o “affettato vegano gusto speck”?

Se provate a cercare su Google “tofu fritto” o “seitan fritto” non usciranno ricette che richiamano i chicken nuggets, giusto?

La nomenclatura vegana può essere influenzata dalla cultura e dalla tradizione alimentare della società in cui si vive. In molte culture, ad esempio, i prodotti di origine animale hanno nomi specifici e utilizzano parole che non hanno un equivalente diretto nella cucina vegana. Ciò significa che, se un vegano vuole descrivere un piatto che utilizza ingredienti di origine vegetale ma che richiama sapori e consistenze di piatti a base di carne, può essere più semplice utilizzare la nomenclatura onnivora per far comprendere meglio il piatto. Ad esempio, se vogliamo una lasagna vegana che utilizza un sugo di pomodoro e proteine vegetali, può essere più facile chiamarla “lasagna di soia” piuttosto che dover spiegare tutti gli ingredienti e la preparazione del piatto.

È uscito il nostro primo libro!

L’insostenibile leggerezza vegetale, un viaggio nel mondo della cucina plant based con 80 ricette originali e nuove, con alcuni grandi classici. Un grande viaggio attraverso la nostra storia, smontando i più comuni preconcetti legati al mondo dell’alimentazione veg. Insomma, un libro per chi non si accontenta della solita minestra.

Alla ricerca del gusto “alternativo”.

Il secondo punto è strettamente correlato: IL GUSTO. Cerchiamo QUEL tipo di gusto, chiamiamo quel prodotto con QUEL nome. Per il mondo vegano il problema non è il sapore, ma quel che c’è dietro ad esso: gli allevamenti intensivi e tutto quel che ne consegue, l’impatto sul nostro clima e sul pianeta e per finire le conseguenze sulla salute della persona. Un po’ come la Coca Zero, che ha tolto lo zucchero e si chiama sempre “Coca”, noi togliamo l’ingrediente di origine animale e chiamiamo quei piatti con lo stesso nome.

Molti dei prodotti vegani sono stati concepiti come alternative ai prodotti animali già esistenti e pertanto necessitano di una nomenclatura simile per poter essere compresi dal pubblico. Ad esempio, il latte di soia è stato chiamato così perché somiglia al latte di mucca e viene utilizzato in modo simile. E se una persona è abituata a mangiare una pizza con mozzarella, chiamare la versione vegana “pizza con formaggio vegano” può rendere il piatto più accessibile e comprensibile per chi non è ancora familiare con la cucina vegana.

Inviare un messaggio al mondo intero.

Il terzo e ultimo punto abbraccia il concetto di ATTIVISMO. Detta in due righe, veloci e indolori: chiamare prodotti vegetali con il loro nome onnivoro serve a dimostrare a tutti che l’alternativa cruelty free e a basso impatto ambientale esiste, ed è sempre più valida.

Chiamare i prodotti vegetali con il loro nome onnivoro non solo facilita la comprensione dei piatti e dei prodotti vegetali, ma può anche contribuire a sensibilizzare le persone sulla presenza di alternative cruelty-free e a basso impatto ambientale. In un mondo dove l’impatto ambientale dell’allevamento intensivo e della produzione di carne e latticini è sempre più evidente, la scelta di un’alimentazione sempre più vegetale può avere importanti conseguenze positive per l’ambiente.

Chiamare i prodotti veg con nomi onnivori è quindi un modo per dimostrare a tutti che esiste un’alternativa possibile e sostenibile all’alimentazione a base di carne e latticini. Utilizzare termini come “hamburger vegetale”, “formaggio vegano”, “salsiccia vegetale” e “latte di soia” può rendere questi prodotti più familiari e accessibili alle persone che ancora non li conoscono, favorendo una maggiore consapevolezza sulla possibilità di scelte alimentari più etiche e sostenibili.

Inoltre, l’utilizzo della nomenclatura onnivora può contribuire anche a demolire preconcetti e stereotipi sulla cucina plant-based, dimostrando che è possibile ottenere piatti gustosi e nutrienti anche senza utilizzare prodotti di origine animale. Questo può essere particolarmente importante per coloro che considerano la cucina vegetale come una dieta limitante e poco appetitosa, dimostrando che invece ci sono infinite possibilità creative e gustose.

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